domenica 7 ottobre 2007

Antonio Porta

“Nel fare poesia” suggerisce lo ‘stare dentro’. Dentro che cosa? Il linguaggio,
naturalmente, e subito quello della poesia, come ci è trasmesso da Omero
a Ungaretti, dalla Bibbia a Pound; ma il linguaggio della poesia ‘sta dentro’
la lingua, come la storia degli uomini ce la consegna, non fissata per
sempre ma in continua trasformazione perché la lingua a sua volta ‘sta dentro’
l’oceano prelinguistico, l’esperienza immediata, il sentimento che ne scaturisce,
e perfino l’estasi dell’esserci.

Poeta è colui che attraversa queste stratificazioni come un palombaro,
in discesa e in ascesa, e prova un’irresistibile vocazione a rendere conto
di queste discese-ascese. Ad esse si lega la forma della poesia, inventata
di volta in volta come linguaggio dell’espressione. Di questo rapporto
stretto un poeta è certamente autocosciente ma non può fare della
sola autocoscienza il fine del proprio operare, come non può
fare poesia fidandosi del proprio impegno artigianale. Un poeta sa di essere
un artigiano perfino maniacale ma ha da temere il suo sapere ‘formale’
se diventa come un arto fantasma staccato dal corpo.

La poesia è dunque conoscenza? Mi pare una semplificazione. La poesia
rende conto innanzitutto di se stessa, della radicalità delle proprie
scelte linguistiche. Nel rendere conto del prelinguistico
non può però pregiudicare i propri esiti che rimangono imprevedibili
anche rispetto a un’esperienza ben codificata. Soltanto nel momento
decisivo del fare linguistico la poesia si mette a disposizione di significati
che da lei possono scaturire, magari a dispetto della stessa volontà
del poeta, a dispetto delle sue rimozioni e reticenze.

Allora, che cosa può dire un poeta del prima e del dopo quell’assoluto
della forma per cui lavora? Che cosa si può dire di più di quello che è in una forma
e che in definitiva non gli appartiene più?

Qualcosa può dire sul proprio metodo di lavoro e indicare le tracce
di quel percorso che, tra intenzioni e ricerca formale, tra ossessioni
prelinguistiche e stimoli linguistici quasi allo stato puro, lo ha portato
a cristallizzare una soluzione tra le infinite possibili. Il metodo,
certamente, pur nella consapevolezza della iperdeterminazione
delle scelte, delle molteplici concause che aleggiano intorno
alla individuazione di un aggettivo, di un sostantivo, di un verso.

Che tipo di conoscenza può dunque venirci da un linguaggio
iperdeterminato quindi polisemico? C’è un’analogia che resiste nel tempo,
quella con il linguaggio del sogno, anche perché l’interpretazione
dei sogni passa attraverso la tradizione della letteratura, come
è sempre stato riconosciuto. Oscillando tra menzogna e verità,
tra folgorazione realistica e ombra mitica, il linguaggio del sogno
si giustifica con la sua stessa esistenza; non si può non sognare.
Il linguaggio della poesia corrisponde a una necessità analoga:
non si può non esprimersi, non si può non mangiare.

La poesia è l’evidenza dell’esserci nella sua forma più essenziale, più spoglia.
Il paradosso sta nel fatto che ci nutre con domande più che con risposte.
Interrogare la propria necessità è funzione irrinunciabile della poesia
come interrogare la vita, in un nodo a treccia.

L’accento politico della poesia è conseguenza dell’accento etico
della sua necessità, che allunga le radici fino al territorio della
libertà di pensiero, legato proprio al mondo della polis,
alla storia delle sue lotte e delle sue trasformazioni,
che la lingua di tutti esprime in prima istanza così come richiede,
in un momento successivo, l’opera del poeta-palombaro.

26.2.1985

Antonio Porta, Nel fare poesia,
*

"Ma présence est peut-être incongrue
mais s'il n'en reste qu'un je serai celui-là."

"Onde coprirmi di pelliccia e seta e senza rovesciare il nero inchiostro dei suoi occhi vasti,
come silfo al soffitto o sciatore su neve, Jean saltò sulla tavola, accanto a Nijinsky.
Questo fu nella sala di Larue porporina, dove, di incerto gusto, mai l'oro si velò.
La barba di un dottore, soave e folto vello, diceva:
"E' fuori luogo la mia presenza qui; ma se uno ha da restare, io sarò quello".
E vinto era il mio cuore sotto i colpi di "Indiana"."

La traduzione è di Franco Fortini per Marcel Proust "Poesie", Einaudi 1983.
*